Nel ’500 l’Italia era il campo di battaglia per la supremazia europea, contesa tra i francesi di Francesco di Valois e gli imperiali della dinastia tedesco-spagnola di Carlo V d’Asburgo. Erano gli anni dei capitani di ventura, dei lanzichenecchi, del sacco di Roma, delle famigerate Bande Nere e della disfida di Barletta. Anche Melfi non fu risparmiata da questi sanguinosi eventi, anzi ne fu tragica protagonista.
A marzo 1528, durante la sua avanzata verso sud inseguendo gli spagnoli, l’esercito francese si presentò minaccioso alle porte della città fedele all’imperatore.
Le milizie, in gran parte mercenarie, erano guidate da Odet de Foix, visconte di Lautrec. Aiutato dalla flotta veneziana il capitano puntava alla conquista delle Puglie e degli Abruzzi, al cui centro si trovava la ricca Dogana delle Pecore di Foggia, UN’antica istituzione amministrativa e fiscale incaricata di controllare e tassare i cospicui redditi della transumanza sull’asse adriatico. Punto nevralgico di quest’azione militare era dunque la conquista di Melfi, crocevia per i traffici del Mezzogiorno orientale con la Campania e la capitale Napoli.
Perciò il 22 marzo 1528 le truppe francesi si presentarono ai piedi delle mura di Melfi. Falliti tutti i tentativi di trattare diplomaticamente la resa con il governatore Giovanni Caracciolo, i francesi aprirono una prima breccia nei pressi della porta Venosina, servendosi delle bombarde e soprattutto delle mine, di cui era un grande esperto il capitano di ventura catalano Pedro Navarro. Le fanterie fiorentine, guasconi e le famigerate bande nere tentarono subito dopo un primo assalto arrampicandosi sulle macerie, ma furono respinti lasciando sul campo cinque capitani d’insegna e ottanta militi.
La mattina dopo le cannonate ripresero pesantissime finché, nonostante l’estremo tentativo della popolazione di arrendersi esponendo bandiera bianca al grido Viva Franza!, le bande nere si riversarono su quella che diventerà via Ronca Battista, facendo strage di quanti incontravano fino alla piazza della Corte.
Una parte della popolazione tentò invano di salvarsi disperdendosi per le campagne, ma la maggior parte fu trucidata nella propria casa o lungo i vicoli della città, durante l’avanzata dei francesi verso l’ultima ridotta del castello, nel quale si era asserragliato il principe Caracciolo in un tentativo di difesa estrema. Il numero di morti alla sera di quel 23 marzo, giorno di quaresima, fu di almeno tremila morti.
Persa ogni speranza Giovanni Caracciolo si arrese ai francesi e fu fatto prigioniero, con richiesta di riscatto all’imperatore Carlo V. Un riscatto che però non arrivò mai, determinando per ripicca il passaggio di Caracciolo dalla parte dei francesi.
Solo una parte di quelli sfuggiti attraverso le altre porte riuscì a salvarsi, trovando scampo nei boschi del monte Vulture, dove rimase nascosta fino al giorno di Pentecoste, quando ormai l’esercito francese si era allontanato per dirigersi nella piana di Foggia, dove sarà decimato dalla peste.
Anche Lautrec trovò la morte pochi mesi dopo nel tentativo di assedio di Napoli, per sua stessa colpa avendo fatto tagliare gli acquedotti e resa così malsana per gli acquitrini la terra dove gli stessi assedianti si trovavano, in piena estate.
Con la disfatta dei francesi l’imperatore Carlo V tornò in possesso dei suoi territori meridionali e, sottratto il feudo al traditore Caracciolo, lo consegnò nel 1531 all’ammiraglio genovese Andrea Doria, quale compenso per il sostegno militare e finanziario da questi ricevuto durante la guerra, quantificato in seimila ducati d’oro.