Francesco Saverio Nitti è stato uno dei maggiori economisti italiani del Novecento, conosciuto e apprezzato soprattutto all’estero, nonché uno tra i maggiori studiosi della Questione Meridionale. E’ stato anche un importante uomo politico, più volte ministro e primo presidente del consiglio nato dopo l’Unità d’Italia.
Nacque a Melfi nel 1868, in una modesta casa di due stanze sulla via dei Normanni, figlio di un insegnante di matematica della prestigiosa Scuola di agrimensura Gasparrini di Melfi.
La sua famiglia, originaria di Venosa, era di ideali liberali e progressisti. Suo nonno fu un medico carbonaro, ucciso dai briganti capeggiati da Carmine Crocco durante la reazione filoborbonica contro la proclamazione dell’Unità d’Italia, nel 1861. Suo padre fu un convinto repubblicano: membro della Giovine Italia e della Falange Sacra di Mazzini, quindi volontario garibaldino e infine arruolato nella Guardia Nazionale italiana. Due suoi zii scamparono a una condanna a morte pronunciata dal tribunale borbonico dopo i moti del 1848. Molti anni dopo un suo pronipote, Francesco Fausto Nitti, sarà partigiano e fondatore del movimento Giustizia e Libertà.
Nitti completò gli studi a Napoli dove conobbe Giustino Fortunato, che influì in modo determinante sulla sua formazione. La sua attività pubblica iniziò come giornalista nelle redazioni del Mattino e della rivista La Riforma Sociale.
A trent’anni era già professore di scienza delle finanze e diritto finanziario nell’Università di Napoli. Pubblicò diversi saggi di economia occupandosi dei vantaggi dell’emigrazione, dello sviluppo industriale e infrastrutturale nel Sud e dell’intervento pubblico per la città di Napoli.Il suo saggio La Scienza delle Finanze fu tradotto in molte lingue e adottato come testo da numerose università in tutto il mondo. Si occupò anche di infrastrutture energetiche, immaginando grandi investimenti nel settore idroelettrico come fonte alternativa al carbone, di cui l’Italia era sprovvista.
Contro l’opinione comune, criticò ferocemente il modo con cui si stava tentando l’integrazione sociale ed economica tra nord e sud, a suo parere sbilanciata in modo troppo iniquo in favore del nord. Dimostrò con documenti e cifre come la quantità di investimenti e di risorse finanziarie pubbliche trasferite verso nord fosse notevolmente superiore, mentre la pressione fiscale a sud era molto più alta. Attribuì le cause di questi squilibri a un cinico calcolo teso a mantenere il sud come un mero feudo politico, di cui anche la classe dirigente meridionale era gravemente responsabile.
Quando nel 1904 divenne deputato, Giolitti gli chiese di occuparsi della legge speciale per Napoli, frutto dei suoi studi e delle sue proposte precedenti, contenute nel saggio Napoli e la Questione meridionale. Da quella legge nacque, tra l’altro, il polo siderurgico di Bagnoli.
Pragmatico cultore delle inchieste e delle indagini statistiche come strumento di governo, si occupò personalmente dell’inchiesta sulla Basilicata, condotta sul campo e intervistando direttamente una grande quantità di cittadini, anche dei ceti più umili. Da quell’inchiesta Nitti maturò la convinzione che l’istruzione e l’apertura dei commerci agricoli fossero più utili allo sviluppo meridionale di tanti sterili investimenti in lavori pubblici.
Nitti fu un profondo conoscitore dei processi economici e attribuì il ritardo di sviluppo italiano al lungo processo di indipendenza e unità nazionale, mentre gli altri stati europei potevano beneficiare della rivoluzione industriale ottocentesca in una relativa situazione di pace, che consentì la nascita della grande industria.
Dimostrò inoltre che il divario economico tra nord e sud, minimo fino al 1861, iniziò ad accentuarsi dopo l’Unità d’Italia per effetto delle politiche fiscali, doganali e di spesa pubblica del nuovo stato nazionale. Allo stato borbonico imputò, invece, una politica fiscale eccessivamente di destra, che cercando di tenere la pressione fiscale al minimo non aveva avuto alcuna capacità di investimento e di programmazione pubblica, nonostante l’ottimo livello della macchina amministrativa e finanziaria dello stato meridionale.
L’enorme accumulo di ricchezza monetaria meridionale, pari al doppio della somma di tutti gli altri stati italiani e testimoniato dai depositi del Banco di Napoli, non poté così essere utilmente impiegato in investimenti imprenditoriali o pubblici di cui invece beneficiarono gli stati del nord, anche grazie alla vicinanza geografica al resto d’Europa.
Lo stesso processo di unificazione nazionale, a suo parere, fu guidato dalla borghesia e non dal popolo, a volte con fini ideali, in altri casi per concreti interessi economici, mentre il popolo meridionale era in larghissima maggioranza filoborbonico, anche per complesse ragioni sociali e politiche che risalivano alla reazione sanfedista del 1799 e poi sfociarono nel Brigantaggio. Ancora una volta contro la comune opinione, Nitti intravide una soluzione ai problemi meridionali proprio nell’emigrazione, che favorì.
Nel 1912, preoccupato di istituire un sistema previdenziale pubblico e nonostante la dura opposizione delle lobby assicurative e di pensatori liberali come Luigi Einaudi, dispose per legge la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita, tenendo a battesimo l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA), il primo mattone del sistema nazionale del welfare. Più tardi, nel 1917, istituì l’Istituto Nazionale Cambi per arginare le speculazioni monetarie e l’Opera Nazionale Combattenti per l’assistenza sociale alle famiglie dei soldati e l’avvio di opere di bonifica di terreni incolti.
Nel 1919 e 1920 fu Presidente del Consiglio dei Ministri. Cercò inutilmente di contrastare l’atteggiamento internazionale eccessivamente punitivo nei confronti della Germania sconfitta dalla guerra e dovette poi affrontare la crisi di Fiume, con l’occupazione dell’Istria da parte di D’Annunzio. Il mancato appoggio della velleitaria azione del poeta gli valse l’ingiurioso appellativo di Cagoia, che significa chiocciola in dialetto giuliano: un insulto più volte ripreso negli anni successivi dai fascisti.
Nel 1922, quando Mussolini formò il suo primo governo, Nitti abbandonò l’aula e non votò la fiducia, a differenza di tutti i suoi principali colleghi come Giolitti, Salandra, Facta e perfino il giovane De Gasperi. Preso di mira dalle intimidazioni fasciste, si ritirò allora nella sua villa di Acquafredda presso Maratea, dedicandosi ad attività giornalistiche all’estero e alla stesura di una trilogia di saggi sull’Europa.
Dopo la devastazione della sua casa romana per mano degli squadristi nel 1923, decise di andare in esilio a Parigi dove rimase per 22 anni, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La sua casa parigina fu il maggiore punto di riferimento per molti politici e intellettuali esuli come Nenni, Rosselli, Turati e Salvemini.
Durante l’esilio scrisse numerosi articoli e tenne varie conferenze contro il fascismo, subendo perciò il controllo costante della polizia politica italiana, come risulta dall’amplissimo dossier del Casellario Politico Centrale custodito presso l’Archivio di Stato di Roma, oltre all’ovvia censura di tutte le sue opere in Italia e a una costante campagna denigratoria sui media nazionali.
Nel 1945 fu catturato dai tedeschi e internato in campo di concentramento, dove rimase fino alla fine della guerra. Al rientro in Italia riprese l’attività politica diventando membro dell’Assemblea Costituente, dove si oppose all’istituzione delle regioni considerandole inutili fonti di spesa locale.
Amareggiato per la mancata elezione a Presidente della Repubblica, capeggiò la coalizione di sinistra durante le elezioni comunali di Roma e fu ispiratore del movimento politico Alleanza Democratica Nazionale, che nel 1953 fu determinante in Parlamento per impedire l’approvazione della cosiddetta legge truffa, proposta dalla Dc, con cui si voleva introdurre un forte premio di maggioranza per il partito vincitore delle elezioni. Morì a Roma nel febbraio 1953.